è inconfondibile. Se in una ipotetica mostra collettiva un suo quadro fosse mescolato a cento altri, si potrebbe individuarlo a colpo d’occhio, senza dubbi ed esitazioni. Come ogni vero poeta ha una voce sua, che certo può essere contraffatta da un bravo imitatore, il quale però in tal modo non fa altro che ribadirne l’unicità, così ogni pittore degno di questo nome ci presenta un’immagine del reale filtrata attraverso uno sguardo soggettivo, in qualche caso perfino deformante, e una tecnica fortemente personale. Ma, detto questo, naturalmente non si è ancora detto niente di sostanziale dell’arte di Maurizio. In cosa consiste in concreto questa cifra stilistica? La prima cosa che colpisce è un tripudio di colori brillanti, non a caso acrilici, che si insignoriscono della scena nella loro incontaminata individualità. I colori infatti sono sempre puri, non si mescolano mai l’uno con l’altro: se c’è bisogno di un effetto di chiaroscuro, per la luce che gioca su un volto o su due lati diversi di un edificio, viene ottenuto con diverse gradazioni della scala cromatica che restano però giustapposte, non con una sfumatura. Di per sé questa tecnica comporta una percezione della realtà concentrata nei suoi elementi essenziali, ma questo è solo un punto di appoggio, o meglio un punto di partenza per un viaggio assai più complesso che spazia per l’universo mondo e conduce a una trasfigurazione che fa del segno un sogno, della figura un emblema. Si potrebbe parlare per la pittura di Maurizio Caruso di realismo magico, a condizione di intendere bene che questa supposta magia non si affida a un progetto intellettualistico o a una fede acritica, bensì a un sensuale cromatismo che affascina e coinvolge. Facciamo qualche esempio. Nell’Omaggio a Giorgio Caproni, a mio giudizio il maggior poeta del secondo Novecento (e credo che non mi faccia velo l’amicizia di cui mi onorava), l’immagine del volto si offre nella scabra, scavata asciuttezza che chi l’ha conosciuto non può dimenticare, ma si incastra poi geometricamente con la cravatta nelle Fortezza Vecchia di Livorno, la città che gli ha dato i natali, da cui sorge senza soluzione di continuità la Lanterna di Genova, la città della vita. Questa architettura di per sé fantastica è però trascesa dalla fulva capigliatura leonina del tutto irrealistica, che più di ogni altro particolare colpisce chi guarda: e si direbbe quasi che qui Maurizio è riuscito a raffigurare l’irrappresentabile poesia. Il Castello di Populonia è perfettemente riconoscibile nelle linee delle torri, ancorché affocate, ma ad accamparsi è quel luminoso cielo mediterraneo a strisce di varie gradazioni di azzurro, con lo svolazzare di quel verde di alberi-bandiere, che rende fisicamente il soffio purificatore del vento. E infine Cinzia surrealtotemica: il busto della moglie è immerso nel mare che lo lambisce con la sua spuma, ma è sormontato da uno sfondo che sembra figlio dell’horror vacui tanto è carico di rutilante colore, e finisce per diventare, come suggerisce esplicitamente il titolo, un totem benefico e protettivo. E in ultima istanza tutta la pittura di Maurizio è totemica, nel senso almeno che l’esperienza dell’accesa solarità proveniente dalla nativa Calabria si riversa in una gioia di esistere che trova nella prorompente bellezza dell’arte una garanzia di durata contro il nostro destino di gente di passaggio.

DAVIDE PUCCINI