La storia dell’arte, come quella della poesia, è lunga secoli, ormai. Esperienze d’ogni genere si sono scontrate e accumulate, abbracciate e divise, sviluppate e confuse ed è ora, dunque, che qualcuno si adoperi a far germogliare dal tutto immagini che siano sintesi dell’intero passato e quindi avvio al nuovo, a un nuovo processo di esperienze che contengano il meglio frantumato e rivissuto con strumenti, cuore e occhi attuali.
L’arte vera non dovrebbe mai essere legata al tempo se non momentaneamente per poi andarsi a  collocare in un ambito di perennità che ne certifica la durata e mi pare che Maurizio Caruso si sia avviato in questa direzione prendendo in prestito, all’occorrenza, il fiato di alcuni maestri che l’hanno preceduto, o vagamente di alcune correnti magari lontane. Fatto è che la sua pittura è ricca di echi, quasi che una navicella spaziale o una farfalla gli suggerissero, mentre sta lavorando, di inserire una citazione, di fare un inserimento. Allora si tratta di un’operazione postmoderna? Direi di no, si tratta piuttosto della necessità dell’artista di cogliere a volo le esigenze odierne, di uscire dall’impatto con la pesante realtà della confusione e della perdita dei valori e di svoltare verso una radura fiabesca che possa far respirare e pensare in termini quasi esoterici.
Maurizio Caruso non è di quelli che credono di scoprire l’esistenza del mondo, ma di quelli che il mondo vogliono conoscere e far conoscere nelle pieghe e nei risvolti segreti dell’anima. Ecco perché si affida alla luce e al colore seguendo in qualche modo la lezione di Bonnard e perciò evitando di servirsi della prospettiva e riunendo le immagini frontalmente. L’impatto è a un tempo forte e delicato, perché tra l’opera e il visitatore avviene un abbraccio dal quale diventa difficile districarsi, perché si entra inavvertitamente in antiche atmosfere che come serpentelli maliziosi stringono nelle loro spire.
Non c’è dubbio che il colore, spesso squillante, abbia una parte importante nella composizione e struttura e scandisce le partiture, e tuttavia non è da meno il pensiero che scorre silenzioso in ognuno dei lavori, sia in quelli su tela, sia in quelli su cartoncino e in quelli su legno. Si badi però che da sé il colore non  diventa metafora, ma si avvale dei simboli sparsi a piene mani ovunque, a cominciare dalle stelle a sei punte. I paesaggi, con le loro bizzarre architetture comunque riconoscibili, gli animali che ammiccano a Franz Marc, i volti oscillanti tra totem e ricordi di principesse uscite dalle pagine delle Mille e una notte, la tauromachia, il muro giallo, il cervo contemporaneo, la notte toscana o Africa hanno un timbro acceso da una sorta di libidine surreale. A Caruso non interessa fotografare la realtà, ma ciò che essa suggerisce, i sogni che ne scaturiscono, i lampi che ne escono per inseguire un senso che possa dare all’uomo delle certezze. Il sogno dovrebbe essere una guida per poter leggere meglio nella quotidianità, altrimenti diventa soltanto e semplicemente una dimensione disorientante. Ma è possibile ricavare dal sogno una traccia che aiuti l’uomo a comprendere il motivo della sua presenza nel mondo? Sì, a patto che il sogno non diventi pretesto per uscire da se stessi e si fermi a ricordarci che ogni cosa, oggetto, animale o persona ha in sé un generatore di luce da cui deve scaturire la ricerca della bellezza. Caruso è come se camminasse attraverso i secoli con occhi  sbarrati di stupore e percepisse la divinità del colore come un imperativo categorico a cui non si può disobbedire. Ecco perché tutto è amalgamato dal suo passo fiabesco, dall’armonia dei rintocchi magici e delle allusioni cromatiche. Egli è pittore di atmosfere intense, di giochi sottili della fantasia: il regista di un circo colossale che gli dà un partecipato e sofferto divertimento e gli permette d’invitare alle emozioni autentiche, d’invitare a guardare il mondo con occhi sgombri e senza il peso degli orologi che scandiscono il tempo. Chi va a passeggio con lui vive fuori dal tempo, in un giardino incantato, e meravigliato di esistere.

Dante Maffìa