A Maurizio Caruso



“E’ del poeta il fin la meraviglia,
parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir, vada alla striglia!     
(Giovan Battista Marino)”

La pittura di Maurizio Caruso, affascinata dalla molteplicità del reale, si squaderna davanti ai nostri occhi come un guazzabuglio armonico, una miscellanea luminosa, una commistione che non si accontenta di catalogare l’universo, ma osa amalgamarlo con i colori e l’inventiva grafica. Il suo cromatismo squillante ha il potere magico di filtrare tutto quanto in una cifra stilistica originale e inconfondibile: pesci e cipressi, tori e cervi, l’Africa e Populonia, Dante e il buffone di Cianacei, Ezra Pound e Mishima. Dallo stupore del mondo e del suo divenire scaturisce un’arte che sintetizza luoghi e biografie, forme e pensieri: lo sguardo è insieme candido e scaltro, popolare e sofisticato, perché il punto di vista di Caruso parte sempre con la grazia e l’umiltà dell’omaggio, ma si nutre di un’inquietudine (che talvolta si manifesta in horror vacui) che nasce dall’ambizione di non trascurare nulla. Omaggio sì, anche affettuosa celebrazione (che non si vergogna talvolta di trasfigurare il celebrato in un iconico totem), ma non superficiale. La composizione abbraccia il soggetto, sfaccettando puntigliosamente la sua storia senza gerarchie, e dunque senza prospettiva: tutto si affaccia in primo piano, avvolgendo lo spettatore in un’atmosfera pittorica esotica e barocca, perché percepisce il mondo come esotico e barocco, poco importa che si tratti dell’Egitto o dei portici di Bologna. Più che una sinfonia, quello che viene fuori è un inno, strutturato dai colori. Raccolti (e soprattutto amati) i dati del reale, la pittura di Caruso ne offre una mimesi da puzzle fluido, dove i contorni dei tasselli sono fusi dallo smagliante cromatismo, presentandosi come un mondo parallelo, felicemente libero dai limiti di spazio e tempo: un microcosmo che sintetizza e celebra la bellezza del macrocosmo, con l’entusiasmo di farne partecipi gli altri. E siccome la vita non è solo ciò che vediamo e facciamo, nei quadri di Caruso convivono gomito a gomito paesaggi geografici e mentali, civiltà antiche e moderne, natura e cultura, sogno e realtà, quotidianità e modelli letterari. Il simbolismo che li attraversa è esente dalla patina intellettuale dell’ermetismo, perché si scioglie nella meraviglia del chiarore della luce, in un flusso metamorfico privo di cupezze. Così come le citazioni della pittura novecentesca risultano sempre intessute nel contesto narrativo, mai ammiccanti agli addetti ai lavori. Fiabe nelle quali le ombre e il mistero sono superate dalla gioia di esistere, mentre l’angoscia del divenire si placa in una staticità quasi immobile, che si identifica col piacere di osservare ammirati lo spettacolo dell’esistenza. Il realismo onirico di Maurizio Caruso, in una società che non sa più vedere il bicchiere mezzo pieno, è quello di un artista che il bicchiere lo vede coloratissimo e traboccante.