In questi lavori di Maurizio Caruso c’è, così mi appare, un che di allegramente furioso e al tempo stesso immobile. Intendo quella sorta di controtempo tutto interiore che proviene dalla bella agitazione dei colori, i quali restano per così dire bloccati dalla serietà dei visi che il più delle volte incorniciano. O laddove visi non ci siano, dal preciso profilarsi di linee, da quella geometria evidente o cercata in figure di vasi, o torri o altri elementi che paiono sognati in un sogno netto, immoto. Ne nasce una festa di colori, sì, ma una festa concentrata, che non si lascia distrarre nemmeno dalla propria esuberanza. Al termine, o meglio nel fuoco di questa seduzione visionaria e nella aperta, frontale disponibilità delle tinte e dei loro giochi o arzigogoli o incanti, c’è una concentrazione. Sì, una quasi violenta fissità, una decisione di non perdere di vista, anzi di guardar meglio qualcosa. Non a caso compare, a un certo punto, la figura barocca della “maschera”, del viso avvicinato al teschio o, che è in fondo uguale, delle grandi maschere misteriose dell’isola di Pasqua. Come se in una sintesi tra culture diverse e distanti, e durante la galleria di visi femminili arabeggianti o indiani o tratteggiati da un Klimt ebbro di futurismo, quel che emerge in primo piano, nella immediata trasparenza del gesto, fosse della vita la misteriosa radice che vince il tempo. Quella radice, o musica di fondo, che senza eliminare lo scorrimento felice e inquietante delle cose e del loro impressivo movimento coloristico, continua misteriosamente a parlare. Anzi che abitando quella stupefatta corte di colori e la infinita gamma dei loro accostamenti è però eloquente di una propria nota particolare, e di una sfumatura imprendibile. Non si tratta di una immobilità inerte, sterile. Anzi, viene il sospetto che senza quella concentrazione tutto si spegnerebbe. Senza quel punto che non appartiene alla vita dei colori ma a un livello antecedente e successivo, tutta la magnifica invenzione frenerebbe la propria ruota. Ciondolerebbe come una pura esibizione. Invece qui no, la ruota non si ferma, la vita nutrita dal proprio segreto è libera sempre di cercare le proprie linee e le proprie tinte. E di chiamare, dopo lo sguardo del pittore, la sua pazienza e la sua impazienza, anche i nostri, di osservatori che non riescono ad essere “distaccati”.
Davide Rondoni