di Beatrice Buscaroli
Senza prospettiva e senza distanza, senza cielo e senza ombre, senza misure, ma con tante guglie, anfratti, portici, ricami, arabeschi, comignoli, tetti, feritoie. Il mondo di Maurizio Caruso è un luminosissimo suk dove oriente e occidente non solo s’incontrano, ma sono la stessa cosa, dove il sole e la luna sorgono insieme, dove la luce dei colori è talmente forte che sembra illuminata da dietro, gigantesca lanterna magica. Mediterraneo, ma non solo, mare e stelle a sei punte, ma non solo. Dietro questo spalancarsi apparentemente soltanto gioioso, ma in realtà non privo di domande –gli occhi si sbarrano azzurri o castani con una fissità incredula – c’è la colta passeggiata di un artista che conosce la storia e la storia dell’arte, un suo porsi con curiosa umiltà davanti alle forme che si accordano come in un grande arazzo, oppure un affresco messicano, oppure un intaglio africano. La decorazione ridonda, eccede, assalta le forme, le comprime; i simboli ammiccano da dietro una superficiale facilità. Qualche memoria appare , qua e là, sommessa come una parola tra amici, una capra che assomiglia agli animali di Franz Marc, pesci alla Chagall, ragazze bionde come vergini preraffaellite. Caruso si concede tutto: il suo è un mondo sconfinato in tutti i sensi: tutto si può adoperare e la storia è un atlante senza tempi che spalanca pagine coloratissime, fitte, ricche come icone bizantine o come pareti alla Matisse…tanti nomi, tanti stili, tutti insieme…quasi si fosse in cerca di una sorta di unità, di concerto, di armonia, tra le cose, almeno.