di Luca Nannipieri
Se il mondo contemporaneo sembra dirci con un unico slogan dominante che niente ha valore, che tutto è relativo, che tutto passa, che tutto è fango, materia destinata alla mutazione e al cambiamento, i quadri di Maurizio Caruso ci impongono di riflettere in un altro modo. Sarà che la bellezza, da secoli e secoli, assieme alla giustizia, ridesta nell’uomo la speranza che non siamo soltanto un grumo di cellule originato e destinato al nulla, sarà che la bellezza nasce gratuitamente, senza poter essere imposta né forzata né gestita, sarà per tutto questo che i quadri di Caruso ci spingono ad una diversa, più profonda, più incantata visione del mondo che non il mero spento materialismo dell’epoca vigente. Così, mentre tutto sembra suggerirci che ogni cosa è monetizzabile e commerciabile, che ogni cosa ha rilievo soltanto se è utile, proficua e spendibile, la pittura di Caruso arriva come un festoso e, a tratti, anche triste monito: guardate ciò che ancora è importante nell’uomo, guardate ciò che ancora conta e non è smerciabile. Ed è evidente che per Caruso e per la sua pittura ciò che conta è il volto di una donna o di un uomo, il volto di chi si ama.
Sarà una lettura moralistica o moraleggiante, quella che vi offro, ma io non conosco opera d’arte o di letteratura che non abbia saputo, in netto contrasto rispetto alle mode e alle tendenze più in voga nel momento, ribadire una sua arcaica e sempre attuale esigenza di bellezza e giustizia.
Così in Caruso una caratteristica su tutte mi colpisce nella sua pittura per niente carnevalesca o bizzarra, anzi drammatica, tanto più drammatica quanto più è acceso e netto il colore che la imprime: nei suoi quadri, in mezzo a tanto frammentato, vorticoso, spesso eccitato movimento, ciò che spesso si staglia e si isola e acquista valore e simbolo è appunto il volto di una donna o di un uomo: semplicissimo, pulito, essenziale, così essenziale che spesso è monocromatico. Un volto essenziale, statuario, con gli occhi fissi che guardano lontano. Si rischia sempre molto quando da queste considerazioni si tirano fuori riflessioni sull’uomo e sull’umano, ma una riflessione ve la porgo, cosiccome questi quadri di Caruso l’hanno porta anzitutto a me: il contrasto tra i volti e la poliedricità delle forme, dei colori, dei movimenti, delle onde che stanno attorno ad essi è così netto che la pulizia e la “scarnezza” della singola faccia diventano quasi un monito, un avvertimento, una messa in guardia: come dire: il nostro mondo moderno ci impone migliaia e migliaia di sollecitazioni, di imput, di simboli, di movimenti, di distrazioni, ma guardate, considerate cosa vi è ancora di essenziale nell’uomo, cosa vi è di importante, di irrinunciabile, di emergente: il volto delle nostre persone care. Il resto sono onde che passano.
Il monito implicito di Caruso è anzitutto un mettere a fuoco, un far risaltare ciò che conta e ciò che vale rispetto al caos frenetico, magmatico, della nostra vita contemporanea. Nonostante non siano rappresentati gli emblemi della nostra caoticità, nonostante non siano dipinti telefonini, computer, hi pod, aerei, treni, internet, e tutto è come metaforizzato, ciò che non è metaforizzato e diventa invece chiarissimo è la pulizia e la fermezza del volto umano dipinto che si staglia dal caos, dal perenne movimento che ha attorno, dall’incessante “panta rei”, dal “tutto scorre” che diventa angoscia e irrequietezza se non avessimo i volti cari, le persone che rendono questo caos per lo meno degno di essere vissuto e continuato. Mi viene a mente un pittore lontanissimo da Caruso eppure, nella distanza, accostabile e paragonabile a lui: Xavier Bueno. Mentre il talentuoso e poco conosciuto fratello di Antonio Bueno concentra tutto sugli occhi e sul volto dei bambini che dipinge, annullando completamente il paesaggio circostante e arrivando così ad una vertiginosa sbalorditiva sintesi di umanità, Maurizio Caruso fa l’opposto per far risaltare il profilo del volto in primo piano: lo contorna di caos, lo circonda di multiformi simboli e distrazioni. La faccia si staglia così con impatto. Il grande Xavier Bueno ha tolto il tutto attorno alla figura, ha creato il vuoto del grigio per dare risalto fortissimo agli occhi, alla curva delle gote, alla timidezza e alla fragilità di un bimbo, la cui immagine è la condizione dell’uomo: tenero e carcerato. In Caruso la forza nasce invece nell’opposizione al pieno, alla sovrabbondanza dell’ambiente circostante a cui l’esilità del volto emergente si contrappone.
Cosa resta di importante in un mondo che sembra dirci che niente è importante? Cosa resta di primario, di irrununciabile, di imperituro? E perché il mondo, da noi costruito e voluto, offende e denigra così selvaggiamente quello che abbiamo di più caro? E’ la lotta feroce di sempre. In pittori come Emilio Vedova questa lotta diventa ruggito, urlo, squarcio, in Mario Schifano soffocata e nevrotica riproduzione, in Caruso diventa ricerca della sintesi fuori dal caos e dentro il caos. Caruso non è Ugo Nespolo. In Nespolo mi sembra valga di più il gioco scenografico, quasi da arredamento, da brillante tappezzeria di una suite a New York, le composizioni di Nespolo sono come decorazioni, abbellimenti, non domande, non lame, non frecce. L’esuberanza dei colori e della forma è il tratto comune tra lui e Caruso, ma quello che fa propendere il mio sguardo su Caruso sono i volti oltre e sopra l’esuberanza del colore. I volti, le figure, noi, gli uomini. Un richiamo fortissimo alla nostra più intima irrinunciabile umanità.
Non è un caso infatti che, ad esempio, le lettere dei condannati a morte della Seconda Guerra Mondiale e, in generale, di qualunque condannato, non siano rivolte ai loro averi, ai loro beni, alla loro azienda, alla loro ideologia, alla loro stirpe, ma semplicemente alle persone che amano. “E’ importante che io dedichi queste righe a quelli che sono il mio ossigeno, la mia vita. A quelli che mi tengono la testa fuori dall’acqua, che non mi lasciano annegare nell’oblio, nel nulla, nella disperazione. Sei tu, madre, siete voi, miei figli” scrive Ingrid Betancourt, la deputata che da anni è in ostaggio dei guerriglieri colombiani e che non ha avuto altri mezzi per parlare coi suoi cari che scrivere loro questa lettera. “In fondo, sono pochissime le cose che davvero importano nella vita: poter amare qualcuno, essere amati e non morire dopo i nostri figli” scrive la poetessa spagnola Amalia Bautista. Sono soltanto due esempi, ne potrei fare altri mille. Da sempre è una lotta, e oggi lo è ancora di più: in un mondo dove tutto è relativo, sembrano relative anche queste cose. Sembra relativo, sentimentale, patetico, dire ti amo, dire mamma, babbo, figlio, disegnare un volto, un volto che piange. Sembra relativa la parola Mamma, la parola Babbo, la parola Figlia o Figlio, sono parole spesso desuete, piene di ragnatele o retorica, mentre vanno molto di moda vocaboli come efficienza, funzionalità, carisma, snellezza, duttilità, mobilità, tutti vocaboli che indicano un valore di superficie, mai un valore di profondità. Dobbiamo essere grati alla letteratura, all’arte, al teatro, dobbiamo essere grati a Caruso che, a contrasto di una vita contemporanea che si presenta come franoso disordine, velocità, mutamento, disperdimento delle nostre basilari radici, evidenzia nei suoi quadri la principale radice, la principale, appunto, chi amiamo, e lo fa offrendo e rinnovando quella fame particolare che hanno gli umani, quella fame strana e scandalosa, quella fame che non è monetizzabile né smerciabile, che è la fame di bellezza.